LE BASI BIOLOGICHE DELLA TOSSICODIPENDENZA |
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Alessandro Tagliamonte, Domenico Meloni Il "craving" costituisce il sintomo cardine della tossicodipendenza (1). Uno stato di dipendenza senza craving non può essere definito tossicodipendenza. Il termine italiano più vicino al concetto di craving è tossicomania. Di fronte a tanti termini spesso usati inappropriamente, è utile proporre delle definizioni al fine di un loro uso più corretto.Dipendenza è una condizione di necessità obbiettiva, da parte di un organismo, di un principio attivo indispensabile per il corretto svolgimento di una o più funzioni d’organo. Siamo tutti dipendenti dalla somministrazione di vitamine, di amminoacidi e acidi grassi essenziali e di diversi ioni, sostanze che il nostro organismo non è in grado di sintetizzare. Possiamo divenire dipendenti da principi attivi normalmente prodotti dal nostro organismo, quali ad esempio gli ormoni, la cui produzione può ridursi, essere interrotta, o divenire inadeguata di fronte a particolari necessità. La dipendenza da un principio attivo, quindi, può essere primaria o acquisita. Il ridotto apporto o produzione di un principio attivo comporta la comparsa di una sindrome clinica, caratteristica per ciascuno di essi, detta sindrome da carenza. Stabilita la diagnosi, la terapia sostitutiva, che può essere una semplice integrazione dietetica, determina la risoluzione dei sintomi. L’aderenza alle prescrizioni mediche da parte del paziente è sufficiente per raggiungere l’equilibrio funzionale che garantisce il benessere. Eppure, è frequente il caso di pazienti che hanno ricadute o, quantomeno, stentano a mantenere un corretto equilibrio funzionale, per scarsa aderenza al protocollo terapeutico. Solo lo sviluppo di un razionale interesse verso la cura del proprio corpo, frutto di educazione ( o apprendimento ), corregge questa dannosa trascuratezza. A parte gli eccessi riscontrabili in personalità fobico/ossessive, l’aderenza alla prescrizione medica rientra mediamente negli stereotipi comportamentali di una sana abitudine. Conseguenze di analogo carattere abitudinario comporta l’uso continuato di alcune sostanze farmacologicamente attive, non consumate per intervento medico, quali tabacco, caffè vino o birra. Comprare le sigarette, magari assieme al giornale del mattino, sorseggiare il caffè, bere mezzo bicchiere di buon rosso ai pasti: sono comportamenti che hanno assunto il significato di sane abitudini da persona realizzata, che costituiscono gli attributi immancabili dello stereotipo consumistico propostoci continuamente dai mass-media. Criticare questo stereotipo equivale ad assumere un atteggiamento controcorrente di stampo pseudo-ecologista e puritano. E’ interessante notare che esiste una differenza di atteggiamento nei confronti di tabacco e alcol di carattere generazionale, rivelata anche dall’area politica di appartenenza. Giovani e sinistra trasversale, più verde ecologista che rosso classico, rifiutano il tabacco, chiedono limitazioni al fumo nei locali pubblici, ecc. L'’dulto integrato, legato ai simboli partitici tradizionali di qualsiasi tendenza, trova così difficile accettare il concetto di pericolosità concreta per abitudini, magari non sue, ma radicate nel mondo in cui si muove da giungere a trattare come cialtronesca l’istanza ecologista. Niente è più rassicurante di una abitudine strutturata, di un costume radicato. Per cui assume maggiore determinazione la difesa di fumo e alcol che il tentativo di bandirne o controllarne efficacemente l’uso. Abbiamo avuto, ma non osservato, per anni una legge contro il fumo in certi locali pubblici e oggi se ne varano di nuove più rigorose. Eppure è di tutti i giorni incontrare tutori dell’ordine che fumano, in servizio, in locali quali aereoporti, magari sotto il cartello che vieta il fumo. Nessuno li nota, perché nessuno riesce a dare al termine "vietato", riferito al fumo, il suo significato letterale. Ora, proviamo per un attimo a immaginare cosa succederebbe se per una settimana venissero a mancare il caffè, le sigarette e gli alcolici e se questi beni divenissero improvvisamente reperibili solo al mercato nero. La cinematografia sulla esperienza proibizionista americana ci consente un deja vu in technicolor. Ma più divertente è immaginare le reazioni e i comportamenti delle persone a noi vicine, quelle meglio integrate, più tradizionalmente legate ai valori con la V maiuscola della nostra società, che però fumano e, obbligatoriamente loro malgrado, bevono vino a tavola e caffè come digestivo. Sicuramente il loro concetto di prevaricazione e di trasgressione della legge subirebbe un duro colpo e, in molti casi, un mutamento. La tossicodipendenza è uno stato di necessità nei confronti di una sostanza che ha assunto contemporaneamente per l’organismo dipendente il ruolo di principio attivo indispensabile e di agente di intossicazione cronica. La tossicodipendenza è sempre acquisita. Di fronte al comportamento dell’iposurrenalico o dell’iperteso che dimenticano o trascurano di assumere la pillola prescritta dal medico, che garantisce loro il benessere, l’immagine del tossicodipendente che assume un farmaco che lo intossica appare paradossale. Il tossicodipendente non tralascia mai di assumere il suo farmaco, a meno che non sia costretto a farlo con la forza. Soltanto se posto nella assoluta impossibilità di accesso alla sostanza, assumerà un atteggiamento di accettazione e subirà senza drammi la sua crisi di astinenza. Ma se sospetterà la benchè minima possibilità di accesso alla sostanza di cui abbisogna, pochi ostacoli saranno in grado di impedirgli di ottenerla: cioè, non esiste prezzo che non sarebbe disposto a pagare. Occorre precisare che questo livello di compulsività si struttura gradualmente ed è frutto di successivi condizionamenti legati a esperienze di deprivazione forzata, di ansia anticipatoria nei confronti dello stato di deprivazione, di ansia come sintomo di astinenza. Ne deriva un comportamento obbiettivamente fuori dalla capacità di controllo dell’individuo, che è obbligato a operare compulsivamente al fine di procacciarsi la sostanza. Questo è il craving o comportamento tossicomanico: il comportamento incontrollato, focalizzato all’ottenimento della sostanza che ha prodotto e mantiene la dipendenza, qualunque sia il prezzo da pagare. Il craving è un sintomo patognonomico di tossicodipendenza. La tossicodipendenza è una malattia cronica ad andamento recidivante. Il craving può comparire in tutta la sua violenza espressiva anche durante una fase protratta di remissione. In questo caso sembra sorgere dal nulla; ma è la memoria risvegliata da uno stimolo esterno o da un sogno, che lo suscita. Il craving compare solo se la sostanza che ne costituisce l’oggetto è reperibile. Non compare in un tossicodipendente detenuto in un carcere di massima sicurezza. La notizia di una particolare situazione di disponibilità, come l’offerta di una dose fatta da un amico, costituisce lo stimolo più efficace nell’interrompere una fase di remissione in un eroinomane. La boccata di aroma che consegue all’accendere la sigaretta dell’amico è la frequente, banale causa di ricaduta del fumatore astinente. Non è vero, quindi, che il craving può assumere il carattere di sintomo primario, endogeno, analogo alla ricaduta in uno stato depressivo. Considerando che il craving è senza dubbio un sintomo di tossicodipendenza e che la tossicodipendenza è uno stato di intossicazione cronica sostenuta da un farmaco di abuso, dovremmo concludere che il craving è un sintomo di questa forma di intossicazione. I farmaci d’abuso sono diversi, suddivisi in base agli effetti acuti e al meccanismo d’azione che li caratterizza. I più consumati sono la nicotina, l’etanolo, la caffeina, la cocaina, l’eroina. Tutti possono produrre craving. Il craving prodotto dalla nicotina abbiamo provato a raffigurarcelo, poco più sopra, immaginando uno scenario di improvviso proibizionismo per il tabacco. Infatti, diagnosticare il craving nel fumatore comune non è facile; manca lo stimolo fondamentale alla sua induzione, cioè la coscienza dello stato di necessità suscitata dalla difficoltà a reperire il tabacco. Il 75% dei fumatori che subisce un infarto del miocardio e il 50% di coloro che subiscono un ictus cerebrale, nel volgere di qualche mese dall’episodio acuto recidivano nel fumo. Stabilito che questa è l’entità del prezzo che il tabagista è coscientemente disposto a pagare per le sigarette, non esistono limiti alla fantasia nel raffigurare lo scenario di una vendita di tabacco al solo mercato nero. Il tabagista consulta il medico non perché si è reso conto che in assenza di una sufficiente scorta di sigarette diviene intrattabile in famiglia e al lavoro, ma perché ha il catarro cronico, l’iperacidità gastrica, l’angina da sforzo. Il craving comincerà a viverlo di fronte al medico che gli prescrive di interrompere il fumo, sotto forma di ansia da deprivazione e di resistenza attraverso argomentazioni emotivamente povere di logica. Solo una percentuale più vicina al 10 che al 50% riesce ad adeguarsi alla prescrizione medica. La scarsa aderenza in questo caso non è data da trascuratezza, ma da trasgressione cosciente. Nonostante la frequenza di questi comportamenti trasgressivi da parte dei fumatori, data la virtuale assenza di interventi apertamente coercitivi nei loro confronti, è difficile definire compulsivo il loro consumo di tabacco. L’assuefazione al fumo è della società in cui viviamo; in questo contesto, il procacciamento delle sigarette potrà assumere la dimensione di craving solo nella fantasia di un ecologo tendenzialmente moralista. Peraltro, dato il prezzo da pagare che il fumo comporta, è corretto porre diagnosi di tossicodipendenza in un tabagista. Poiché il craving diviene evidente solo sotto minaccia di deprivazione, è difficile una diagnosi precoce di tabagismo. Per lo stesso motivo, è molto più precoce la diagnosi di eroinismo. Il prezzo della prima dose può essere l’arresto con reprimenda da parte del prefetto e alla terza dose già si rischia il carcere. Si potrebbe addirittura superficialmente concludere che l’eroina produce craving, cioè tossicodipendenza, sin dalle prime somministrazioni. L’eroina ha un effetto acuto gratificante simile a quello della nicotina, ma molto più intenso, tale da indurre rapidamente comportamenti di appetizione volti a riprodurlo. Questi comportamenti operanti tendono a strutturarsi in tempi brevi, ma assumono il carattere di craving solo nella fase di dipendenza avanzata, cioè dopo diversi mesi d’abuso ininterrotto. Il tempo necessario perché una dipendenza si strutturi varia da sostanza a sostanza e da soggetto a soggetto. L’effetto gratificante acuto dell’eroina è dovuto alla stimolazione di determinati neuroni, le vie dopaminergiche che originano nel mesencefalo dal tegmento ventrale e proiettano rostralmente nel nucleo accumbens, che liberano dopamina su recettori specifici deputati alla mediazione della sensazione di piacere (2). L’effetto gratificante può essere riprodotto dalla stimolazione elettrica degli stessi neuroni o da qualsiasi farmaco capace di provocare, direttamente o indirettamente, la liberazione di dopamina in quella sede. Si tratta dei farmaci d’abuso, diversi fra loro nella struttura chimica e nel meccanismo d’azione, ma tutti in grado, per definizione, di stimolare i recettori alla dopamina del nucleo accumbens (3). Tutti, quindi, possono indurre in chi ne subisce l’effetto gratificante un comportamento operante di appetizione nei confronti di tale effetto. Il blocco dei recettori dopaminergici con un neurolettico previene l’effetto gratificante acuto di qualsiasi sostanza d’abuso (4); ma non estingue il craving, cioè non cancella la memoria agli effetti cronici di eroina, nicotina o alcol. Stabilire il momento in cui il comportamento appetitivo operante al procacciamento di sigarette o eroina assume la configurazione di craving presuppone un appropriato periodo di osservazione del soggetto assieme a una dettagliata raccolta della anamnesi. Solo una lunga storia costellata di episodi di forte appetizione può consentire il sospetto diagnostico di incontrollabilità e, quindi, di craving. Il craving non è un semplice sintomo di astinenza. Se così fosse, dovrebbe comparire come sintomo di una sindrome da carenza. Invece, neppure la fame o la sete inducono reazioni individuali paragonabili a quelle osservabili in un eroinomane in astinenza. Il potenziamento della trasmissione dopaminergica nell’accumbens sostenuta da uno stimolo farmacologico continuo, comporta un progressivo sviluppo di tolleranza, cioè una riduzione di intensità della risposta eccitatoria sia al farmaco che, in assenza del farmaco (astinenza), agli stimoli normalmente efficaci sui centri limbici della gratificazione (5). Alcuni farmaci d’abuso, quali gli oppiacei e gli stimolanti centrali, producono a dosi adeguate una stimolazione dei centri della gratificazione di intensità massimale che annulla la potenzialità gratificanti di qualsiasi altro stimolo. Altri, come la nicotina, fondamentalmente abbassano la soglia di stimolazione di detti centri, aumentando la disponibilità dell’organismo a provare piacere. A tutti i farmaci d’abuso si instaura tolleranza sia di tipo omologo ( cioè al loro stesso effetto ), che eterologo ( cioè riduzione di risposta anche agli altri stimoli gratificanti ). Per cui, un organismo dipendente può provare piacere solo in presenza di una concentrazione ottimale di farmaco, capace di ristabilire la soglia dei centri di gratificazione a valori normali. Al di sopra si può parlare di sintomi da intossicazione acuta ( ancorchè soggettivamente gradevoli ), al di sotto di sintomi di astinenza. L’astinenza da farmaci di abuso va intesa quindi come una condizione di ridotta capacità a provare piacere, fino alla anedonia da cocaina (6). Questa condizione configura un sintomo patognomonico della depressione, e questo spiega sia le note depressive del tossicodipendente, sia il ruolo favorente della depressione al consumo di sostanze di abuso. Caratteristicamente, però, nel depresso l’elevata soglia alla gratificazione determina una ridotta reattività, un atteggiamento di rinuncia. Nel tossicodipendente, invece, si accompagna a comportamenti di appetizione compulsiva del farmaco risolutore, configurando il quadro della disforia. La differenza risiede nel significato del sintomo craving, presente anche nel depresso tossicodipendente in astinenza e che, come già detto, può comparire anche in una fase di prolungata remissione. Restano due punti da approfondire, il significato del craving e il fatto che esso possa comparire in un soggetto in fase di remissione. Cominciamo dal secondo punto. La morfina, per il suo effetto gratificante, viene usata come rinforzo positivo sull’animale di laboratorio che lavora per riprodurne l’effetto e ripete con movimenti sempre più sicuri il compito prefissato ( apprendimento ). L’animale opera al fine di ottenere la gratificazione e il suo operare, o meglio, gli stimoli ambientali che in successione determinano questo operare, divengono essi stessi fattori di condizionamento ( in senso pavloviano ) nei confronti dell’effetto del farmaco. Questo significa che ciascuno di questi stimoli diverrà in grado di riprodurre nell’animale l’effetto del farmaco, in maniera sempre più efficace; esattamente come la luce rossa induce salivazione nel cane di Pavlov. Il sistema viene complicato dal contemporaneo sviluppo di tolleranza e dipendenza. L’effetto di un farmaco consegue a una reazione fra lui e l’organismo; è la risposta dell’organismo alla modificazione che esso determina sul bersaglio su cui agisce. Il graduale instaurarsi di tolleranza all’effetto di un farmaco, rivela una modificazione della reattività dell’organismo, cioè della risposta conseguente alla attivazione del bersaglio da parte del farmaco. La presenza di fattori condizionanti, che fungono da potenziatori dello stimolo morfina, attiva anche la capacità reattiva dell’organismo, che sviluppa tolleranza e resistenza in tempi più brevi di quanto accadrebbe in loro assenza. Si tratta di una tolleranza riflessa, che si manifesta solo in presenza dei dettagli condizionanti: un animale e un uomo possono mostrare tolleranza a una dose di eroina o di alcol consumata in una condizione di consuetudine, ma mostrare segni di intossicazione alla stessa dose assunta in una situazione inusuale (7). Il concetto insito nel termine counteradaptive effect di Wikler (8) o opponent process di Solomon e Corbitt (9) è ben definito dagli effetti di una somministrazione cronica di morfina. L’effetto biologico di questo farmaco interferisce con uno stato di equilibrio e provoca reazioni di segno opposto da parte del sistema bersaglio alterato che divengono tanto più efficaci ed evidenti, quanto più prolungato e intenso è lo stimolo che li produce. Queste reazioni di segno opposto possono arrivare a controbilanciare completamente gli effetti della morfina, dando luogo alla tolleranza. Nel caso di una situazione di tolleranza sostenuta da un trattamento cronico, l’interruzione brusca del trattamento comporta l’evidenzazione drammatica di questi processi di adattamento, altrimenti alterati dallo stato di equilibrio mantenuto dal farmaco. La comparsa di sintomi speculari rispetto agli effetti acuti della morfina è determinata dalla espressività di questi processi adattativi endogeni e costituisce la sindrome di astinenza. La sindrome di astinenza agli oppiacei è, quindi, espressione della reattività prodottasi lentamente nell’organismo agli effetti farmacologici degli oppiacei, che in presenza della morfina o del metadone si manifesta come tolleranza. Questo meccanismo spiega perché un riflesso di tipo pavloviano capace di riprodurre l’effetto del farmaco sull’organismo in assenza del farmaco, può dar luogo a un sintomo di astinenza riflesso (7). Se l’animale dipendente da morfina ha appreso un preciso procedimento per ottenere la morfina stessa, nel ripetere il procedimento attiva i meccanismi di resistenza all’oppiaceo. Questo fenomeno è determinato dai riflessi pavloviani costituiti dagli schemi ripetitivi del procedimento di accesso alla morfina. Se alla fine del procedimento l’animale riceve soluzione fisiologica invece di morfina, avrà una sindrome di astinenza. Con lo stesso meccanismo uno stimolo quale un odore, un volto, un motivo musicale, l’immagine di un braccio stretto da un laccio emostatico, possono scatenare brividi, sudore freddo con piloerezione, dolori, ansia, necessità di eroina e, quindi, craving anche in un eroinomane in remissione. Il craving, cioè non compare come sintomo isolato, ma all’interno della sindrome di astinenza, indipendentemente dal fatto che sia da deprivazione o riflessa. Il craving è classicamente presente nell’eroinomane da strada, infrequente nel paziente in trattamento con metadone a mantenimento, difficile da configurare nei comportamenti del tabagista. L’eroinomane sotto metadone, se assistito correttamente, è garantito contro i sintomi di astinenza 24 ore su 24 (10). Non ha fantasie o sogni con autosomministrazione di eroina. Se manifesta sintomi di astinenza, significa che il metadone è sottodosato e il dosaggio va reintegrato. Caratteristicamente questo avviene durante un tentativo di disassuefazione attuata con una riduzione progressiva del dosaggio, anche se lenta e sotto controllo medico. Quando compaiono i primi sintomi di astinenza, anche nel caso che a richiedere la disassuefazione sia stato il paziente, compare il craving. Spesso, inizialmente, il paziente arriva a negarne esistenza e significato anche a se stesso così che, invece di parlarne col medico, preferisce far fronte al suo bisogno con l’eroina da strada. L’eroinomane da strada deve tutti i giorni escogitare il modo di risolvere il problema del prezzo della dose di eroina. A parte le situazioni episodiche legate a un consumo contenuto all’interno di una attività di traffico illecito, il suo comportamento è sempre controllato dal suo stato di necessità e, nella maggior parte dei casi, lo spaccio stesso costituisce un prezzo da pagare. Egli sa, per certo, che l’eroina elimina istantaneamente il suo malessere e lo trasforma in benessere assoluto e che, in dose sufficiente e fino a che durerà l’effetto, può soffocare tutte le sue preoccupazioni del poi. Per questo la richiede e la pretende immediatamente, perché immediatamente essa interromperà la sua angoscia e i suoi dolori. Eppure, la sua richiesta cessa se accerta che l’eroina non è accessibile. Ma se per ottenerla deve percorrere chilometri, anche a piedi, lo farà; ruberà e scipperà; diventerà suadente, manipolatore, minaccioso, violento; giungerà a prostituirsi. Ma soltanto nella coscienza che tutto questo può aver successo, può procacciargli l’eroina. Questo suo modo di procedere sconcerta il comune spettatore e rende difficile accettare il concetto che il suo comportamento sia compulsivo, cioè incontrollabile, automatico e non lucidamente determinato. E’ logico chiedersi perché se manca lo stimolo "disponibilità della eroina" non compaiono comportamenti di appetizione se non sotto forma di pietosa richiesta di assistenza per lo stato di sofferenza. Un ratto condizionato a ottenere la sua dose di morfina alla fine di un difficile percorso, se lasciato nella sua gabbia normale subisce l’astinenza senza compiere nessuno dei movimenti appresi nel labirinto: perché mancano gli stimoli che determinano quei movimenti, in quanto ciascuno di essi e solo loro sono per lui segnali di accesso alla morfina. Allo stesso modo, il cane di Pavlov non saliva perché ha fame, ma perché la luce rossa gli segnala l’accesso al cibo. Necessità e disponibilità di eroina assieme stimolano nell’eroinomane i comportamenti di appetizione condizionati sia dall’effetto gratificante del farmaco che dalla sua efficacia nell’eliminare le sue sofferenze. Quanto meglio è strutturato il condizionamento, tanto più determinato sarà il suo comportamento appetitivo. Il modulo comportamentale utilizzato dipenderà dalle caratteristiche individuali del soggetto e dalle caratteristiche degli ostacoli che si frappongono fra lui e l’eroina; per cui, a volte, il suo comportamento operante appetitivo potrà anche risultare inefficace. In conclusione, il craving è una forma di condizionamento operante indotto dalla difficoltà di accesso al farmaco di abuso. Per questo è difficilmente osservabile nei fumatori, data la disponibilità di tabacco in tutte le formulazioni consumabili. Di conseguenza, non è sintomo patognomico di tossicodipendenza in generale, ma di quelle tossicodipendenze indotte da sostanze di abuso illecite, cioè di difficile reperimento. Un ultimo punto riguarda gli effetti acuti di certe sostanze di abuso che possono creare confusione nella diagnosi di craving. La agressività da alcol, quella da stimolanti centrali che può assumere il carattere di delirio paranoide, quella da fenciclidina, possono complicare e rendere particolarmente pericoloso il comportamento appetitivo di un tossicodipendente. Ma sono altra cosa dal craving, da cui vanno tenute distinte anche ai fini terapeutici. Il craving è un sintomo culturalmente imposto all’eroinomane da una scelta proibizionista, come il suicidio è un sintomo imposto al depresso da una società competitiva. Spesso l’eroinomane diviene depresso a tal punto da procacciarsi compulsivamente l’eroina per suicidarsi con una overdose. Queste conclusioni non vanno confuse con una argomentazione a favore di una ipotesi antiproibizionista. Tale ipotesi non è compresa né nelle deduzioni scientifiche né nell’ideologia degli autori, i quali auspicano piuttosto una completa libertà e responsabilizzazione del medico specialista nella assistenza al tossicodipendente. BIBLIOGRAFIA DSM-III-R. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. The American Psychiatric Association, Washington D.C. MASSON, 1988. M. Bozarth, A Ventral Tegmental Reward Systems and Abuse, Seventh International Berzelius Symposium. Goteborg, Sweden. Raven Press, N.Y. 1-17, 1985. G. Di Chiara, and A. Imperato, Drugs Abused by Humans Preferentially Increase Synaptic Dopamine Concentrations in the Mesolimbic System of Freely Moving Rats. Proc Natl. Acad. Sci. USA, 85, 5274-5378, 1988. D. Wise, Neural Mechanism of the Reinforcing Action of Cocaine. In: Cocaine: Pharmacology, Effect, and Treatment of Abuse. Research Monograph Series, 50: 15-33, 1984. Acquas E. Carboni E. e Di Chiara G. (1991) Profound Depression of Mesolimbic Dopamine Release after Morphine Withdrawal in Dependent Rats. Eur. J. Pharmacol. 193, 133-134. Gawin F. H. and Ellinwood E. H. (1989) Cocaine Dependence, Ann. Rev. Int. Med. 40: 149-162. Siegel S. (1979). The role of conditioning in drug tolerance and addiction implication. Keehn J.D. Ed. Academic Press. N.Y. 143-168. Wikler A. (1773). Dynamics of drug dependence: implications of a conditioning theory for research and treatment. Arch. <Gen. Psych. 28: 611-616. Solomon R.L. and Corbitt J.D. (1974). An opponent-process theory of motivation: temporal dynamics of effect. Psychol. Rev. 81: 119-146. Dole V.P. and Joseph H. (1978). Long-term outcome of patients treated with methadone meintenance. Ann. N.Y. Acad. Sci. 311: 181-189. In Italia, così come in altri paesi definiti altamente civilizzati, si sono affermate diverse forme di discriminazione nei confronti di altrettante minoranze, basate su fattori puramente arbitrari. Nel passato la lebbra è stata causa di emarginazione e persecuzione e il lebbroso era costretto a camminare col campanello al piede per preannunciare il suo passaggio e dare ai sani la possibilità di evitarlo o di munirsi di strumenti idonei a tenerlo alla larga. Il trattamento riservato oggi ai tossicodipendenti, specie se sieropositivi, non è diverso. Essi sono confinati in luoghi di cura che spesso ricordano i lazzaretti e solo i medici che operano in queste strutture possono curarli.Il tossicodipendente può ricorrere a strutture non mediche o a singoli operatori non medici e ricevere forme di assistenza alternative alla medicina. Ma è proprio nella restrizione legalizzata al suo diritto di scegliere il tipo di terapia e lo specialista in cui ha fiducia che si configura la discriminazione nei suoi confronti, questa volta basata sulla ideologia.Esistono due teorie sulle tossicodipendenze, una biomedica, che indica l’alcol come causa primaria della sbornia e dell’etilismo, e una psico-sociale, che indica la società e la inadeguatezza del singolo come fattori primari, e l’alcol o qualsiasi altra sostanza di abuso come fattori accidentali. Non è mia intenzione entrare nel merito di queste distinzioni. Partirò, perciò, da un punto di arrivo: un tabagista con un infarto o un etilista con una cirrosi epatica possono scegliersi il medico di fiducia, così come possono decidere se, invece, affidarsi a uno psicologo, un santone o quant’altri. Nessuno interferisce con la violenza di una legge sulle loro scelte. Un eroinomane giunto al limite di sopportazione della sua dipendenza, afflitto dalla inadeguatezza nel gestire i suoi rapporti interpersonali a causa della sua fame di eroina, consumato da una malattia infettiva quale l’epatite o l’AIDS, può affidarsi solo al medico della struttura pubblica apposita. A qualunque altro medico non è concesso, per legge, di dargli completa assistenza Come già detto, l’eroinomane è però libero di scegliere uno psicoterapeuta, sempre che abbia la disponibilità economica necessaria, o di entrare in una comunità terapeutica, se sarà fortunato e troverà un posto.Nella nostra legislazione ha quindi avuto il sopravvento, di fatto, il punto di vista secondo cui la tossicodipendenza non è condizione di competenza medica, cioè non è malattia.Questa conclusione è, in genere, gradita alla classe medica, che non ha mai del tutto accettato i tossicodipendenti, compresi gli etilisti, come pazienti. Durante i miei dieci anni di professione medica al servizio di assistenza ai tossicodipendenti, dai colleghi più benevoli ero definito un missionario, un francescano, raramente un medico. Per cui, anche da parte delle istituzioni che rappresentano i medici si sono levate solo deboli e sporadiche proteste a queste disposizioni di legge, subito etichettate e sopite come atteggiamenti corporativi e di difesa del territorio. In realtà, chi ha perso il diritto riconosciuto a qualunque altro cittadino di scegliere il medico di fiducia cui affidarsi, è il tossicodipendente. Chiunque approvi questo stato di ridotta libertà del tossicodipendente, sia perché dà ragione alla sua visione peccaminosa e criminale della tossicodipendenza, sia perché riduce una responsabilità professionale che lo infastidisce, è in realtà un intollerante che non rispetta i diritti altrui. L’attuale normativa non ha lo scopo di prevenire e ridurre l’uso delle sostanze tossiche, cioè pericolose sul piano fisico, ma di quelle arbitrariamente definite illegali e il cui uso, quindi, configura un reato. Nessuno, infatti, arresterà mai un paziente cirrotico che beve un bicchiere di birra o un tabagista che fuma una sigaretta acquistata di contrabbando. Eppure il primo sta autodistruggendosi, il secondo sta consumando un reato. Personalmente sono lontanissimo dal discorso della legalizzazione degli stupefacenti e, come spesso ripeto, nel contesto sociale attuale potrei sostenere con altrettanta efficacia una discussione a favore o contro la liberalizzazione della eroina. Infatti, questo aspetto del problema tossicodipendenza è condizionato da fattori ideologici e economici preponderanti, per cui è politico non scientifico.Personalmente sarò sempre intollerante nei confronti di qualsiasi forma di intolleranza ideologica.Per questo motivo, sosterrò sempre il diritto di opinione di un medico contrario all’uso di un farmaco o di un intervento terapeutico non farmacologico, poiché egli ha il diritto di assumersi la completa responsabilità del suo intervento. Per lo stesso motivo riconosco a qualsiasi paziente, o a chi è delegato a rispondere per lui, il diritto di scelta del medico. Resterò acerrimo avversario di chiunque, medico o non, cerchi di imporre le sue opinioni personali con la violenza, allorché legalizzata.
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